La Abramovic, come nel tentativo di recuperare la ormai morta performance nel nuovo della installazione chiede allo spettatore di diruparsi verso i suoi tre monitors, lontani dalla balaustra che fa da confine fra società civile e barbarie, fra il pulito e la discarica. Una sorta di posta che l’ artista punta sul tavolo di un gioco col quale provocatoriamente vuole fare intendere che il metodo ottimale, se non addirittura unico, per entrare in contatto con l’ opera, per capirla e carpirla, è rischiare tanto quanto l’ artista ha rischiato ripercorrendone gli stessi passi. Di notte, quando l’ installazione si accende, nei calanchi che rovinano verticalmente verso il mare, Abramovic, al buio di una torcia elettrica accompagna piccoli gruppi sul crinale di quel dirupo a vedere immagini diversamente invisibili, baluginanti lontane, suggestivamente, come i fuochi di un accampamento di barbari. Li accompagna a scoprire la vera natura del gioco: provare un brivido, una specie di ebrezza del rischio che a tutti i costi le autorità avevano proibito al pubblico di azzardare.

Mario de Candia, L’arte nel video, «la Repubblica», 27 settembre 1989

3 monitor, 3 videoregistratori, 3 ombrellini cinesi.

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